«Che idea sorpassata: una Cineteca che raccoglie e presta film e attrezzature, che distribuisce schede, che forma animatori. Perché mai se la liberazione dello spettatore (e del cittadino si presume) può avvenire per le stesse "dinamiche interne" alle società occidentali indotte dagli avanzamenti tecnologici, e quindi dai meccanismi auto-espansivi del mercato.
Strani personaggi, quelli che, come Fabio Masala, credevano in una vecchia forma distributiva che richiede una presenza, un andare e un venire, un contatto tra persone. Si rispondeva, non sempre trovando un ascolto pensoso, che era indispensabile un controllo sociale organizzato dei processi di produzione, distribuzione e consumo della cultura e dell'educazione. Perché è sul ribaltamento delle "pure" logiche del mercato, che si gioca il futuro degli audiovisivi, il loro potenziale di emancipazione e di sviluppo della creatività sociale. E nel passaggio dalla virtualità tecnica all'effettività politica e culturale che si decide il destino della democrazia. Come affermava Filippo De Sanctis, grande costruttore insieme a Fabio Masala della Cineteca, "L'obiettivo di un esercizio collettivo dei processi informativi non è tecnologicamente utopico, né socialmente impraticabile: esso è politicamente e culturalmente arduo". Tutto qui, si potrebbe aggiungere.
Un'istituzione che pensi diversamente
Ripetiamo la domanda: ci sarà una Cineteca come l'avevano sognata i fondatori? Bisogna credere ottimisticamente che ci sarà. Ma è diffìcile immaginarla. Come si è detto non si riesce a intravedere una dimensione politica del progettare. Non si riesce a immaginare in quale istanza o manifestazione della politica attuale, scorgere quell'investimento di fiducia nella costruzione, diffusa e partecipata, della vita democratica e dell'economia. Deve esistere ancora ai nostri conti, quell'agente esterno, di indispensabile stimolo, che è stata la Società Umanitaria. Quel modo di "pensare diversamente", di istituzione non governativa che ha sperimentato esempi e prototipi, e che ha interagito proficuamente con l'ente pubblico non deve rischiare di scomparire.
Il potere, niente di meno che il potere
Si vedono movimenti in campo che non promettono niente di buono. Essi sembrano segnalare una specie di infatuazione per le parole {non basta dire cineteca) e l'isolamento, dalla globalità della politica culturale educativa di cui si è parlato, di settori specialistici. Sarebbe un male se venissero realizzati nel nome di Fabio Masala. Si è già detto dell'indissolubile collegamento di audiovisivi, associazionismo, formazione. Non c'è tempo moderno che possa espungerli da una politica culturale così come l'avevano immaginata, anche per il futuro, i grandi fondatori. Si deve dire anche della ragionata avversione che Fabio Masala nutriva per gli specialismi e i settorialismi.
Vale per Fabio Masala quello che egli disse, nel 1990, su Filippo De Sanctis. Egli sottolineava, con riferimento particolare all'ultimo periodo dell'impegno professionale di De Sanctis, il suo non rinchiudersi negli specialismi e quindi neppure nel cinema e nella televisione. E ne rimarcava la scelta di rivolgersi al grande nuovo pubblico "anche" del libro (Pubblico e biblioteche), della musica, dei musei, del teatro, della poesia (Progetto Prato). Rinchiudersi negli specialismi, diceva Fabio Masala citando Asimov, "avrebbe comportato la conseguenza di arrivare ad una perfetta ignoranza di tutto quanto esiste al mondo tranne che per una limitatissima sezione di niente". Un'altra frase significativa, non solo degli ampi interessi culturali, ma anche dei riferimenti etici di Fabio - ancora a proposito degli specialismi - la trasse dalla Simone Weil dei Quaderni: "Se in una materia qualsiasi si conoscono troppo cose, la conoscenza si muta in ignoranza, oppure occorre elevarsi a un'altra conoscenza".»