3 luglio 2008

Pietro Clemente e la Cineteca sarda

 

Cari amici,

 

il vostro appello e il riferimento alla data di nascita della Cineteca sarda (1966) mi fa pensare inevitabilmente ai primi anni '60, in particolare al 1963 e 64 in cui lavorai con Fabio Masala, e partecipai del lavoro della Società Umanitaria, anche con degli stages a Meina e in Sardegna. Ricordo quel lavoro 'fondatore' di cultura, anche come un lavoro in cui venivo fondato io stesso come 'uomo di cultura'. Era un tema che Fabio Masala sentiva molto, quello di una iniziazione al lavoro culturale in gruppo che togliesse a noi aspiranti intellettuali un'aria di privilegio o un odore di accademia. Gli scherzi da stage, la capacità di gestione delle tecniche (il proiettore), di fare delle performances (leggere le schede dei romanzi e altro), di stare in gruppo in modo equilibrato, di non essere troppo individualisti e il senso dell'uso pubblico della cultura sono stati fondamentali per quella generazione che avrebbe poi 'fatto' il '68 e creato i circoli culturali, le reti che ancora sono vive. Anche nella sezione del PSI di Cagliari e poi del PSIUP con Fabio ci caricavamo il proiettore a 16 mm pesantissimo per proiettare Il ferroviere di Germi, o ci addestravamo a leggere brani di libri di letteratura a sfondo sociale che leggevamo nei circoli di lettura. Facevamo un lavoro di base, con un linguaggio non elitario mirato alla cultura come patrimonio collettivo. Il proiettore talora non funzionava, ci mancava la lampadina di riserva, e dopo aver fatto 'speakeraggio' con una Cinquecento e avere raccolto un po' di giovani non certo avvezzi agli incontri culturali dovevamo spiegare che il film non ci sarebbe stato. Talaltra la nostra insistenza per il dibattito incontrava resistenze 'pre-morettiane'. Ma facevamo quello che ancora oggi è il nucleo della formazione culturale di massa, cercare la gente dove vive e coinvolgerla nei processi culturali che schivano i luoghi di frontiera e la gente comune, per cercare riflettori, bravi presentatori, e televisioni.

Fabio Masala riuscì poi con la Cineteca Sarda a creare un servizio culturale diffuso, che nasceva da quelle esperienze fondative, ma che si basava proprio sul lavoro capillare di 'organizzatori di cultura'.

Ho scarsa considerazione dei processi che nascono dall'alto, da gente molto pagata, che ha magari entrature mediatiche, che sfoggiano supertecnologie e nascondono nuove forme di privilegio se non la mercantilizzazione e spettacolarizzazione (estetizzazione) della sfera della cultura. La cultura è da anni invasa da bravi presentatori e polemisti narcisisti che proclamano da soli la propria indispensabilità.

Quest'anno la ICOM - Italia e la Conferenza nazionale della associazioni museali ha fatto un appello forte, quasi drammatico, contro le grandi mostre 'blockbuster' senza ricerca e con grande appeal turistico, che condannano al silenzio i musei e il lavoro culturale di ricerca, fatte da abili mediatori e assecondate da assessori con desiderio di visibilità. Ha rilanciato il ruolo dell'organizzazione stabile della cultura contro l'effimero, ha considerato desertificanti le mostre che fanno cassetta a miliardi e poi tolgono pubblico alle reti minute e locali dei musei, delle scuole, delle associazioni territoriali. Lasciano statistiche di quanti piedi hanno traversato una soglia dove l'obiettivo era feticizzare pochi oggetti o opere del Louvre, o contrabbandare un lavoro culturale, dove c'erano soltanto 'capolavori', ovvero oggetti acritici che sono importanti perché vengono proclamati con la pubblicità ben organizzata e a fini di lucro.

Io credo che si debbano riprendere le battaglie culturali contro la gestione della cultura da parte di politici, manager, da non specialisti, contro le grandi architetture centralistiche e i progetti faraonici, contro l'estensione del concetto di grande qualità spettacolare alla produzione pubblica di eventi culturali, per la cultura al servizio del pubblico, e gestita da chi fa ricerca e non da chi trova i migliori slogan pubblicitari. Sto vivendo in Toscana, drammaticamente, questi fenomeni, perché ne è promotrice attiva una sinistra storicamente legata a questo territorio, ma fortemente trasformata dalla gestione mediatica della politica e della cultura.

Io sono da vari anni impegnatissimo sul fronte dei musei etnografici, e presiedo l'associazione nazionale dei musei e dei beni demo-etno-antropologici (Simbdea); in questo lavoro ho riscoperto l'importanza della 'organizzazione di cultura' e ho ripreso il lavoro cominciato con Fabio Masala: nel senso che i musei sono insieme film, TV, racconto letto, memoria storica, si pongono problemi di allargare l'accesso, debbono conquistare il pubblico, in specie i giovani, dialogare con le scuole, etc… Ho riscoperto temi come la società civile, il lavoro dal basso per la democrazia, i nuovi concetti di comunità, mediati anche da Internet, la solitudine culturale di tanti soggetti sociali (i giovani, gli immigrati, le donne più anziane...), il bisogno soggettivo e l'importanza collettiva che 'ciascuno racconti la sua storia' e non si raccontino sempre le stesse storie dei pochi che hanno accesso alla TV e al mercato editoriale.

Quel che faccio mi dice che il tipo di lavoro che facevo con Fabio Masala alle origini della Cineteca Sarda, cambiate le tecniche e gli spazi culturali, è ancora indispensabile. Quest'anno ho pensato di descrivere il lavoro cellulare del museo locale con una immagine tratta dalla Napoli degli anni recenti, e delle pratiche educative di frontiera della grandi città latinoamericane, piene di minori fuggiti o orfani, quella del 'maestro' di strada, che si cerca gli allievi e che plasma la sua opera di conquista culturale partendo dall'incontro con loro. Un museo 'maestro di strada' non punta sulla firma di un grande architetto, ma su un tenace lavoro di ricerca, di dialogo con le tecnologie, di scoperta delle culture locali (i giovani e 'You Tube') cose che spesso fanno gli artisti contemporanei per intuire come sta cambiando il mondo.

Io credo molto a questo lavoro, e sono convinto che la Cineteca sarda è fatta di questo genere di lavoro 'incorporato' in una memoria sociale che sarebbe utile riattivare, che ha una potenzialità di aggiornamento costante (ne è sempre stata una caratteristica), e di 'organizzazione di cultura'. È davvero molto tempo che non lavoro con voi, salvo qualche incontro occasionale che però mi ha sempre confermato l'idea di un 'patrimonio' di saperi, pratiche, documenti ineludibile. Non posso darvi dunque un sostegno pieno e motivato su cose che non conosco bene, ma ve lo do con entusiasmo come membro di una storia comune dell'organizzazione di cultura nel dialogo con la società civile, nella convinzione che quel modo che ha formato me è ancora valido nella formazione diffusa e capillare oggi, nell'uso sociale partecipato dei beni culturali e del patrimonio culturale di cui parlano le nostre leggi .

Forza Paris

 

Pietro Clemente

 

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